Maria Grazia Patella e Miro Solman. Opera in Piazza Oderzo
Maria Grazia Patella e Miro Solman
Opera in Piazza Oderzo
“La gente ha tanta fame di lirica”
Oderzo, una piccola città del Veneto che respira cultura, si affaccia davanti ad un immenso scenario. Sulla platea, che occupa l’intera Piazza Grande, nemmeno il Barbapapà più elastico troverebbe un posticino, ma sarebbe esultante provare un così grande entusiasmo condiviso. Nel palcoscenico appare una fredda principessa cinese, Turandot. Vicino a lei, come una fiamma, scintilla una ancor più tenera Liù, la cui presenza sembra dare la vita a tutta l’opera. Dopo il momento in cui la scintilla si spegne, nemmeno il grande Puccini fu capace di ultimare la composizione. Voci grandi e flessibili, scenografia moderna ma chiara, orchestra splendida, coro travolgente.
Si dice che il testo dell’aria “Tu che del gel sei cinta”, durante la quale il velo di Liù si scopre al completo, sia stato scritto proprio da Puccini. Sembra breve, insignificante, ma come la piccola onda che riflette la tempesta che abita dentro il mare, porta con sé tutti i sentimenti dell’opera. Maria Grazia Patella e Miro Solman parlano di uno spettacolo di “campagna”. Anche loro, come l’aria di Liù di fronte a Turandot, si trovano piccoli davanti alla grandiosa Fenice o La Scala, non lontani. Invece, Opera in Piazza, attraverso l’implacabile forza di anni di costante lavoro, coinvolge una miriade di sentimenti: quelli degli appassionati, quelli di coloro che non sono mai andati all’opera, di coloro che l’hanno appena scoperta e non se ne staccheranno mai più.
Opera in Piazza è un progetto che, con la qualità delle più grandi compagnie, si autogestisce per fare uno spettacolo con l’obiettivo di riempire una piazza di occhi scintillanti. Sono capaci di arrivare dove altri non riescono: portare l’amore per l’opera, in una relazione senza frontiere, perfino “ai gatti che non han padrone” in una grande piazza di una piccola città.
Mi incontro per prima con Maria Grazia Patella, fondatrice e direttrice artistica, con Miro Solman, di questo grande progetto. Gli occhi di Maria Grazia mostrano più entusiasmo che stanchezza, la sua dialettica è ricca di storie del passato, e avvolge l’ambiente di un luminoso salotto del Veneto…
Grazia racconta:
L’ Opera Oderzo è nata per scherzo, per gioco. Era il 1991, 26 anni fa. Un giorno sono andata nel teatro della città per un incontro con il direttore, così, parlando, mi ha detto che sarebbe andato a Rudaka Slavina, in Slovenia. Io ho suggerito: “Ah, che bello! Allunga la strada di qualche chilometro e vai a sentire mio marito che canta La traviata a Maribor”. Lui, che aveva nel cuore la musica lirica, mi ha guardato con occhi trasognati e mi ha detto, in lingua dialettale veneta: “Vuoi che la facciamo a Oderzo?”. [Pausa] “Ti prego ”.
Era un periodo difficile politicamente parlando. A dicembre del 1990 in Slovenia hanno fatto il referendum per liberarsi dalla Serbia. Se al sud si respiravano venti di guerra, al nord invece si respirava aria di libertà. Anche il direttore artistico del teatro di Maribor, il maestro Stane Jurgec, era una persona illuminata. Nella Pasqua del 1991 a Miro venne in mente di chiedergli la collaborazione: “Mia moglie vorrebbe fare La traviata a Oderzo”. Per la prima volta nella storia un teatro della Slovenia dell’Est sarebbe venuto a Oderzo; anche passare la frontiera sarebbe stata una esperienza nuova…. Ma la caparbietà fu tale che venne rappresentata La traviata seppure con qualche rifacimento.Venne ridotto il numero dei ballerini, il numero dei coristi, vennero ridotte le dimensioni delle scenografie in base al boccascena del Teatro di Oderzo. Vennero ridotte le file di poltrone togliendo quelle delle prime file. E’ stato un successo enorme. Il teatro era gremito, strapieno, una cosa incredibile… E cantava Miro.
Considerate che io ero una ragazzetta, non sapevo nemmeno il significato della parola sponsor. Appena uscita dalla riunione sono andata nel primo negozio degli elettrodomestici, e ho detto: “Noi dovremo fare La traviata e ci servirebbero soldi”. E mi hanno dato: 25.000 lire, 13 euro di adesso. Quindi l’opera doveva esser fatta con 13 euro! [Risate].
Quella volta è stato uno scherzo, un gioco di parole. Non immaginavo mai che col tempo le cose sarebbero cambiate in questa maniera. Appena tornati a Maribor, dopo la recita del 13 di giugno del ‘91, gli artisti trovarono i carri armati per le strade: si trattava dei preliminari della Guerra dei dieci giorni. I rappresentanti di tutte le categorie del teatro, dai tecnici al coro, l’orchestra… anticipavano un consiglio, un “soviet”, per decidere cosa fare: il giorno dopo era stata programmata una Traviata, la stessa di Oderzo, con il presidente Milan Kucan; la bomba era assicurata. A quel punto mio marito ha detto: “Io ho una famiglia, aiutatemi a scappare”. L’illuminato Jurgec aveva amici nella milizia locale, hanno tirato via tutti i tronchi di alberi che bloccavano ogni valico, e mio marito è scappato con una ballerina domenicana, che non aveva nemmeno un vestito, spaventata da morire, e un cane. I primi morti li hanno fatti lì a Maribor, poi, quando è scoppiata la guerra.
Questo è stato l’inizio. È cominciato un gemellaggio che non era soltanto culturale, era anche un gemellaggio dell’amicizia che oggi è diventato un rapporto di grandissimo affetto. Nel ‘92 è scoppiata in pieno la guerra, io ho pianto tutte le mie lacrime, perché avevo amici in tutte le repubbliche. Da parte nostra abbiamo voluto fare un concerto per la pace; attraverso la cultura, la musica, si dimenticano queste cose. Ho invitato serbi, croati, macedoni, e sloveni, tutti insieme. È stata una cosa molto forte, molto… Ho fatto una raccolta di materiali, di legno, di farina, ecc. e l’ho mandata a Sarajevo. Il comandante delle forze mandò una lettera e mi regalò una videocassetta inedita dei bombardamenti di Sarajevo; anche il vescovo mi scrisse. Ho un ricordo vivissimo di quel periodo. L’ex-Iugoslavia, tutta, la considero la mia prima patria. Mio figlio è nato grazie a lor. Mio marito, se voleva cantare doveva fare l’extracomunitario; là ha potuto imparare il Teatro, sui palcoscenici della ex Jugoslavia.
Nel ‘93 bisognava da inaugurare la nuova piazza di Oderzo, e il sindaco, memore del successo di Traviata mi disse: “Ah, che bello sarebbe se voi riempiste la piazza…!”. Miro ha chiesto aiuto agli amici di Zagabria che sono venuti a rappresentare Nabucco. Dentro, nei pullman, avevano le pistole. Mi ricordo l’autista di un pullman che disse: “Non vedo l’ora di tornare per ammazzarne il più che posso”. Poi è scoppiato il disastro fra Serbia e Croazia. Il prefetto in quell’occasione ci negò l’ospitalità dei croati all’interno delle nostre caserme militari essendo la Croazia un paese in guerra. (Mi disse: “È un paese in guerra, non possiamo ospitarli lì”). E comunque vedi che c’è un legame fortissimo culturale, storico, fra noi e l’ex-Iugoslavia. Ci hanno dato tanto e noi abbiamo dato tanto a loro, Miro soprattutto. Miro non è una persona normale. Lui ha il cuore più grande che tu possa immaginare.
Dal 1991 abbiamo riportato la musica in città. Dove noi facciamo adesso l’Opera in Piazza c’è una banca. All’interno della banca c’era il solito classico teatrino dell’Ottocento, come in tutti i paesi, il teatrino sociale. E lì arrivavano compagnie ambulanti con quattro stracci e due cantanti e facevano l’opera. All’inizio il Teatro era frequentato dalle persone nobili, non c’era il caso della persona semplice che frequentava il teatro. Mussolini voleva che il popolo fosse istruito e favoriva le piccole compagnie teatrali che andavano anche nelle campagne. Ovunque la gente si appassionava, anche se erano fatte con mezzi poveri.
Negli anni ‘90 il fatto che la gente avesse fame di lirica non lo sapeva nessuno. I veri appassionati, pazzi, furiosi, si alzavano alle 2 o 3 di notte per andare a Treviso in coda e poter prendersi un biglietto, oppure all’Arena di Verona o alla Fenice. Non c’era altro. La prima volta che abbiamo fatto l’Opera in Piazza abbiamo coinvolto 300 coristi di tutta la provincia di Treviso, e si sono affiancati ai professionisti di Zagabria. I 300 di Treviso hanno portato la mamma, il papà, il nonno, lo zio, il cugino… e così in piazza per Nabucco c’erano 3000 persone. Nel frattempo era arrivato un altro sindaco illuminato che ha capito che questo era un grande biglietto di visita per la città. Ci ha generosamente aiutato a far crescere il festival. L’opera in ogni angolo del pianeta è la forma di cultura più diffusa, di escamotage per portare tanta gente agli spettacoli ne abbiamo inventati tanti.
Nella carriera di mio marito, e nella piccola carriera che ho potuto fare io, abbiamo conosciuto personaggi popolari della televisione. Da qui l’idea di invitare Pippo Baudo. Abbiamo considerato che tutti lo vedono in televisione e che ci sarebbe stata la curiosità di vederlo da vicino. Pippo veniva, la gente veniva per Pippo… Quando la gente assisteva allo spettacolo e sentiva la musica dimenticava, s’innamorava di quello che facevamo e ritornava. Piano piano c’è stata una affezione della gente e anche dei sostenitori, verso di noi, verso gli spettacoli, e verso le varie manifestazioni alle quali ora partecipa tutta la città. Oggi non servono più i grandi personaggi per attirare il pubblico, oggi il festival piace e le persone vengono per ammirare lo spettacolo ed ascoltare la musica ; le produzioni sono sempre di qualità.
Tutti i paesi intorno, anche i più piccoli, hanno detto: “Se Oderzo che è una bella cittadina, ma è una cittadina di campagna, se ha avuto così tanto successo, facciamo anche noi!”. E così sono nate nei dintorni tante piccole realtà che fanno da cornice ad Oderzo. Mi sono sentita molto orgogliosa, continua Maria Grazia, che le vecchiette di Sacile o di Chiarano, appassionate da sempre di musica, nella impossibilità di spostarsi lontano, avessero la possibilità di assistere all’opera nel loro paese. E quindi la cultura andava, andava… Si è diffusa ovunque nella regione, ma anche fuori; nel Friuli, questa moda di fare l’opera all’aperto è già consolidata.
Tra tutte le persone importanti che abbiamo ospitato in questi anni il più importante è un caro amico: Giuseppe di Stefano. Lui è stato l’idolo di Miro in gioventù. Averlo a Oderzo è stata una cosa grande. Lui aveva espresso il desiderio che questo festival una volta fosse dedicato a lui. Quando è morto al cimitero eravamo quattro gatti. C’era Carreras, che aveva monopolizzato tutti. La moglie si è messa a piangere e ha detto che suo marito sarebbe stato dimenticato. Un amico di Bologna mi ha proposto di rinominare il festival “Opera in Piazza Giuseppe di Stefano”. In quel momento mi è venuto un brivido, immagina la responsabilità. Festival di campagna, per quanto bello, per quanto conosciuto… dedicata col nome di Giuseppe di Stefano. Non è che puoi fare delle sciocchezze col nome di Giuseppe di Stefano. E invece la moglie ci ha subito rinnovato la richiesta; così abbiamo dedicato il Festival a Giuseppe di Stefano. La moglie è diventata la madrina del festival. Il nome della lirica è una famiglia. Tutti i grandi personaggi collaborano per mantenere la tradizione. Per esempio Luciana Serra verrà anche sabato, ha cantato alcune produzioni con mio marito. Maria Chiara è sempre con noi, amici per la vita.
Noi abbiamo creato una realtà anomala. È cresciuta in un modo eccezionale. Paghiamo quasi il 60-65 % delle spese con gli incassi del pubblico. Parametro molto apprezzabile nell’ambiente del Teatro; in un altro teatro con gli incassi paghi i signori che puliscono i gabinetti.
Sotto il profilo del rapporto abbiamo creato una famiglia allargata. Tutte le persone che ti stanno intorno sono coinvolte. Anche e soprattutto perché Maribor, dove lavora Miro, è un teatro-famiglia. L’altro giorno abbiamo fatto un picnic con tutti i tecnici. Un tecnico cominciava a cantare e gli altri gli facevano il coro. Cantavano canzoni slovene. Si lanciavano a vicenda bombe d’acqua. Questo è il clima. Quando vedi il coro, tutti sanno danzare, cantare, recitare, stanno sul palcoscenico come se fosse normale, non c’è nessuno che è distratto. Entrano e se guardi le facce di tutti loro, ognuno, secondo la sua personalità, è dentro la sua parte. Sono tutti i solisti che fanno parte dei coristi. Tutti si rispettano, solisti e coristi. Tutto il teatro di Maribor è una famiglia. Nell’ ex-Iugoslavia hanno un modo di essere con il prossimo che non è come da noi. Se hai una necessità sono pronti ad aiutarti.
Si torna, per un momento, alla Turandot, la produzione dell’estate di 2016 e come fu allestita in Piazza Grande. Si percepisce, con ammirazione, la fatica dell’immenso lavoro che ogni anno si porta a scena.
Qualsiasi sia l’elemento scenografico che tu metti in Piazza Grande si completa con l’ambiente circostante. Nel Barbiere abbiamo costruito una mini piazza in Piazza Grande. Abbiamo creato l’ambiente di Siviglia con elementi architettonici che rispecchiavano gli elementi spaziali della Piazza Grande. Quando abbiamo fatto Rigoletto avevamo un palazzo bianco preso dall’arena di Avanches (in Svizzera). Una cosa impressionante, perché questo Rigoletto aveva gli stessi nostri elementi architettonici: i timpani, le scale, i ponti. C’erano delle persone che passavano per la piazza e non si accorgevano neanche, sembrava una cosa che era stata lì da sempre. Miro aveva fatto il Gugliemo Tell all’Arena di Avanches. La direzione non sapeva come ringraziarlo perché la parte del tenore è terribile, e andando all’ufficio ha visto le foto di queste produzioni, fra cui quelle di Rigoletto. Gliel’hanno regalata. Una scenografia la cui realizzazione può essere costata 3-400.000 milioni di vecchie lire.
Questa scenografia di Turandot ha un tocco di modernità. Il registra è Filippo Tonon, l’assistente di Hugo de Ana, che lavora all’Arena di Verona. Come Hugo de Ana lui crea degli spettacoli che non sono assolutamente moderni. Gli austriaci e i tedeschi che amano di più la scenografia tradizionale che quella moderna mi scrivono e chiedono: “Non è che il coro è vestito con le tute della FIAT di Torino!” [Risate]. In linea generale gli spettatori vogliono che le cose siano corrispondenti al periodo storico della vicenda. Questa sera vedremo sì una scenografia moderna, ma con effetti luci e costumi tradizionali cinesi da cui uscirà proprio l’espressione di freddezza della principessa di gelo.
La parte artistica è eccezionale. All’ingresso lo scorso anno abbiamo posizionato delle sfingi su dei bastioni in sintonia con il tema di Aida. Per la Turandot abbiamo parlato con un amico scultore, un vero artista che vive per la sua arte: scolpire la pietra in un cappannone con un pollaio. Le sue sculture sono autentici capolavori. Fa delle sculture eccezionali, cerca di non essere troppo figurativo. Siccome avevamo degli enormi depositi di polistirolo avanzato, ho detto allo scultore: “Potremo tentare di fare i leoni per la Turandot con quel polistirolo?”. Abbiamo incollato dei pezzi uno sull’altro fino a formare quattro giganteschi blocchi. Li abbiamo portati col camion nel laboratorio dello scultore nostro amico di nome Valter Fingolo. Valter esamina un leoncino cinese procuratoci da una giornalista che era stata a Pechino. Lo scultore ha detto: “Capito tutto”. E fatti i leoni!
I primi anni ho odiato anche il festival, continua Grazia. Io andavo con la valigetta zeppa di documenti di artisti per le pratiche burocratiche necessarie perché tutto fosse in regola. Passavo per la piazza mentre gli artisti stavano in palcoscenico. Cantavano, ballavano, recitavano, provavano, ed io ero là. “Ma perché ho inventato questa cosa che mi tiene lontana dal palcoscenico?” Facevo, comunque, le mie cose, anch’io cantavo, però, piccole cose perché il festival mi fagocitava. A un certo punto Bepi Covre, il sindaco di Oderzo, dice: “La gente va istruita. Grazia ti te va sul palcoscenico e te conta la storia”. “Bepi dico io non esiste al mondo che ci sia un’artista che va sul palcoscenico a parlar dell’ opera”. “Ti te va a farlo e basta!”. Ho dovuto farlo! E ho detto: “Vabbé, non canto, però sto sul palcoscenico. E poi guarda quanta bella gente”, e ci ho preso gusto. Faccio una cosa molto leggera, di 5 minuti, e mi piace.
Prova a immaginare a trovare i soldi per montare un teatro, smontare un teatro, in tre giorni, con 30 metri di boccascena. Non è che sia un francobollo sulla busta, è una cosa spaventosa. Noi non facciamo come tutti i teatri, che affidano alle agenzie il compito di vendere i biglietti, di creare la pubblicità e altro. Noi andiamo di persona a contattare gli sponsor, ad uno ad uno… Per la rappresentazione di Turandot li abbiamo coinvolti tutti, bombardandoli di tante mail, perché scegliessero fra le varie immagini quelle a loro più gradite: “Ragazzi! Adesso facciamo la Turandot, vi mando tutte queste immagini. Decidete voi quale sarà l’immagine della Turandot”. E’ stato un sondaggio coinvolgente e alla fine l’immagine più gettonata è stata quella della Turandot Sognante. “L’opera deve concedere la possibilità di sognare”. L’immagine che tu dai deve rispettare questi valori. Ho fatto un’indagine che è durata per più di un mese per scoprire l’autrice di quel disegno. L’ho trovata in Russia, Lisa Babenko, ho continuato a scriverle finché lei ha concesso l’autorizzazione. Verrà anche lei in Italia. Il pubblico è co-organizzatore. Uno dà i soldi, un altro dà i consigli, un altro sostiene moralmente…
All’età di 9 anni abitavo nel palazzo davanti alla chiesa e quando c’era la processione nel giorno di Pentecoste, dicevo: “Ah, che bello! La Cavalleria rusticana”, mentre ascoltavo Di Stefano. Poi il destino fa la sua parte. Nel frattempo ho lavorato anche come segretaria nelle scuole e ho imparato a leggere le circolari, a essere ordinata nelle carte, nelle burocrazie. Intanto studiavo canto. Ma… quando tu metti in piedi una cosa del genere ci vuole il genio, la sregolatezza e anche una buona dose di pazzia.
Facciamo entrare in scena Miro Solman che, vivace, instancabile, ci parla mentre gli operai smontano il palcoscenico. Entrano, escono, lui parla al telefono, ma non perde mai il filo di quello che sta dicendo. Il filo che farà crescere il suo progetto. Ormai sono finiti i due giorni di recita. Ma Miro non fa che prendere più velocità.
Ci dice, mentre guarda lo scenario:Un grande problema è la pioggia. Noi alle 19.30 della sera, calcolando che alle 21.00 inizierà la rappresentazione, dobbiamo decidere, in caso di mal tempo, se rischiare o procedere allo spostamento della recita al palazzetto. Supponiamo che un quarto d’ora prima delle 21.00 cominci a piovere, noi non possiamo più spostarci. Non abbiamo il tempo di allestire. Viene la pioggia: noi dobbiamo solo restituire i soldi al pubblico. E chi deve restituire i soldi al pubblico? Io, personalmente, perché l’associazione non ha più i soldi, li ha già spesi nelle forniture. Ogni volta è un patema d’animo. Ringrazio il padre eterno che ci ha mandato due serate splendide; adesso il sindaco mi dovrà togliere da questa responsabilità! E allora ho fatto una proposta alla Amministrazione Comunale: “Se noi avessimo un luogo fisso dove svolgere questa attività, anche gli allestimenti principali resterebbero fissi. Con gli incassi delle serate potremo pagare il 60-85 %”; nel mondo della cultura non esiste mai questo rapporto. Il loco per fare l’opera all’interno ci sarebbe qui, a 150m in linea d’aria. Con 200.000 euro, compriamo il palco, compriamo la tribuna… Tutto un teatro trattato al modo scenografico, non al modo edilizio. Una cosa che sia solida ma anche di facile distruzione. Questa struttura la rivestiremmo di pannelli bianchi, colorati, a modo di teatro, a modo di arena, a modo delle arene de toros della Spagna, e diventerebbe più che adatta. Se ci fosse questa possibilità è logico che questa pannellatura la faremo tanto alta da consentire di avere una acustica senza microfoni, e sarebbe l’ideale. Abbiamo cercato di avere un’amplificazione discreta, ma è sempre una amplificazione. Io l’amplificazione la odio: se uno ha la voce importante e l’altro ha una voce flebile con l’amplificazione entrambe avrebbero la medesima voce. Questo non è giusto. Io propongo al sindaco: “Ogni anno mi dai 10.000 euro di sovvenzione: non li voglio quei 10.000 euro di adesso. Anzi, io ti darò 10.000 euro!”. Oppure: “Sì, li voglio i 10.000, poi io te li rendo per pagare la rata di questi 250.000 euro di cui abbiamo bisogno”. Noi lo restituiamo al comune! Dopo tanti anni noi avremo la possibilità di sostenere le spese del nostro spettacolo solamente con l’incasso dei biglietti. Però non rinunceremmo ai nostri sponsor, perché sono talmente affezionati che si sentirebbero quasi esclusi. Quei soldi li investiremmo in pubblicità. Quando noi potessimo investire bene i 25.000-30.000 per avere pubblicità in rete 4 e canale 5 arriveremmo subito alla terza recita. Potremmo fare anche due titoli. Si potrebbe investire ancora 20.000 euro all’anno per fare una pubblicità in Austria. Quest’anno un ticket-office di Vienna ci ha chiesto se volevamo vendere i nostri biglietti. Hanno fatto una piccola propaganda attraverso i loro canali online col risultato che ci hanno telefonato 5 tour-operators per venire a vedere l’opera, e due sono venuti. Credo che questa sia la strada. Adesso devo vedere se anche la città potrebbe essere d’accordo.
E così facendo la piazza potrebbe servire da salotto dove verrebbe accolta la gente prima che inizi la recita. Ci potrebbero essere i vari produttori ad offrire le loro mercanzie: le cantine, le latterie e vari altri negozi del paese. La piazza potrebbe riempirsi per due, tre giorni con forte impulso anche dal lato commerciale.
Con il nostro progetto potremmo avere un 5-6 % di curiosi che guadagneremmo all’opera, anche attraverso una miriade di serate promozionali. Io stesso li intratterrei, spiegando la musica, spiegando l’opera in una forma dettagliata. In quest’anno ho dovuto ripetere la stessa serata per tre volte. E tre volte abbiamo riempito un teatrino di 180 posti. La nostra finalità è poter dimostrare che lo spettacolo di opera lirica può essere ancora uno spettacolo di attrazione. Quando lo spettacolo di opera lirica non è così vuol dire che la gente non l’ha mai imparato a conoscere.
Nel ‘93 è venuto il capostazione della West-Bahnhof di Vienna, e ha detto: “Miro mi hai dato un’idea, ho un progetto. A Sankt Margarethen appena fuori Vienna c’è una cava di ghiaia, da dove si è formato un teatro”. Lì hanno costruito un palcoscenico e ogni anno durante l’estate rappresentano 40 recite di opera e concerti, a 5000 persone la sera, guadagnano 400-500-600.000 euro l’anno, che devolvono alle associazioni, ecc.
Siamo nella regione Veneto, che ci dà un contributo abbastanza sostanzioso. Dal punto di vista musicale qualche volta allestiamo da noi, ma è difficile avere un gruppo artistico qui. Una volta avevo cercato di formare un coro, ma è stato impossibile. Oggi mi affido alla struttura del teatro di Maribor. Sono stato segretario artistico del teatro e ho impostato una tradizione che ancora continua; quando si fa l’opera italiana si devono prendere i conduttori italiani, regista, scenografo, costumista. E quando si fa l’opera tedesca si devono prendere i conduttori tedeschi. Abbiamo fatto il Werther francese ed è venuto un direttore francese, soprano francese, scenografo e regista francesi, quello di Nizza. Per cui l’opera ricalca il carattere del paese. Se io sono tedesco e faccio Rigoletto, non è quello il Rigoletto di Verdi. Se faccio zarzuela e lo staff non è spagnolo non è una zarzuela.
Ho scritto a tutte le forze politiche, ho preso tutti e ho detto: “Signori, gli artisti sono i detentori della verità. I politici prima raccolgono consensi, voti… e dopo forse fanno quello che hanno promesso in campagna elettorale. Invece, gli artisti prima devono dare, e dopo forse viene l’applauso. E quando non venisse l’applauso, ma il fischio, l’artista se ne deve andare subito. Invece il politico resta là per cinque anni. Quando noi facciamo l’Opera in Piazza se sopra il palcoscenico non diciamo la verità, noi, l’anno dopo, non torniamo più. Ecco perché noi siamo detentori della verità, non possiamo fare a meno, ci bocciano subito”.
Miro ha fretta, se ne va recitando la Divina Commedia, che conosce a memoria… Noi restiamo lì, a vedere come cresce un grande progetto realmente culturale, che si coltiva, e fa crescere il seme dell’opera in tutto il pubblico, ma si deve smontare dopo ogni spettacolo. Non abbiamo mai più pianto così a lungo la morte di Liù in altre produzioni.
Quest’estate la comunione di culture continua con Zorba il Greco, di Mikis Theodorakis, regia di Lorca Massine e la divertentissima Vedova allegra di Léhar. Il 7 e l’8 luglio speriamo di ritrovarci lì.
Cristina Aguilar